Il 15 marzo 1959 è una splendida giornata di sole, anche se probabilmente un po’ fredda. Nella Sala del Comune di Bologna, Franco Meliconi ed Elena Pedrini pronunciano il fatidico sì avvolti nei loro cappotti. Usciti sulla piazza, i due neosposi, insieme a familiari e invitati, si fanno riprendere dall’amico tranviere Vincenzo Bazzani davanti al Sacrario dei caduti partigiani. Tra quei volti fissati nella fotoceramica e raccolti nella grande teca c’è anche Massimo, il fratello di Franco, caduto a 19 anni combattendo contro i fascisti in via Oberdan, il 15 luglio 1944. Il suo nome di battaglia, “Gianni”, divenne quello della sua formazione, la 7a GAP, protagonista, nel novembre successivo, della battaglia di Porta Lame e di altre azioni incise nella storia della resistenza bolognese. Quel mosaico di volti si era formato spontaneamente, il 21 aprile 1945: poche ore dopo la liberazione della città, i bolognesi avevano iniziato ad attaccare sul muro del Palazzo del Comune, dove avvenivano le fuciliazioni, le fotografie dei loro cari. Immagini tirate fuori dai portafogli, tolte dai documenti o dalle cornici, oppure addirittura con la cornice ancora attorno, come se quel muro fosse una parete della casa. "Il monumento ai caduti più straordinario che ci sia", secondo Jean Giono. Quattordici anni dopo, per la famiglia Meliconi, quel muro è casa: anche se un incendio doloso qualche anno prima ha distrutto il memoriale spontaneo e questo nuovo appare un po’ più freddo, ma sicuramente più resistente.